
Scritto da Francesco Corigliano
ATTENZIONE SPOILER Se ancora non avete giocato questo titolo, e avete intenzione di non perdervi un po’ di sorprese, allora non leggete questo articolo. Personalmente ci avrei giocato lo stesso, pur conoscendo il finale, ma io sono io e voi siete voi.
Citare, citare, citare. Solitamente il videogioco si ferma a questo punto: un riferimento ammiccante, a volte anche sarcastico, a qualche noto luogo letterario.
I giochi che reinterpretano l’opera, invece, non sono molti: i primi che abbiamo citato ci provano, e ci riescono, in maniera diversa e più o meno interessante. Si tratta di un esercizio più complesso della mera citazione, un procedimento che costringe a esporsi di più e mettere “sotto sforzo” il media videoludico stesso. Con una certa ritrosia, usiamo la parola “responsabilità”: chi vuol riscrivere un libro attraverso uno schermo e un joypad, insomma, si prende lo stesso carico di chi vuol trarne un film, un pezzo teatrale, un fumetto.
Da allora se ne sono perse le tracce, e Walker – insieme ai commilitoni Lugo e Adams – è parte di un piccolo gruppo di ricognizione mandato attraverso Dubai isolata. Avanzando, i tre si rendono conto che la situazione è fuori controllo: rifugiati e soldati li attaccano a vista, mentre un inquietante speaker continua a incitare i sopravvissuti alla violenza; la città è in uno stato di vera e propria guerriglia tra gli stessi rifugiati, l’esercito americano e, più avanti, anche la CIA, mandata a distruggere ogni prova della catastrofe.
I nostri andranno avanti, avanzando in una violenza sempre più sfrenata, nell’idolatria, l’ossessione e, inevitabilmente, la follia.
Ci viene da subito proposto un viaggio, una spedizione all’interno della città distrutta dalle intemperie: ma già dai primi metri percorsi nella città degli Emirati, il protagonista si rende conto che qualcosa non va. I soldati sparano ai rifugiati, i sopravvissuti si ammazzano tra di loro; la situazione non sembra né sotto controllo né comprensibile. A questo punto, Cuore di tenebra del buon Joseph Conrad si è già palesato; un riferimento reso evidente sia dal nome del colonnello (la “K” al posto della “C” ci ricorda il signor Kurtz, co-protagonista del romanzo), sia dalla stessa esperienza del viaggio nelle profondità della barbarie e del selvaggio. Il riferimento si incrocia anche con Apocalypse Now, dove Kurtz è appunto un colonnello e dove viene introdotta la tematica della guerra, a irrobustire la pur già corposa idea di “tenebra del cuore” presente nel libro di Conrad. Altra analogia è relativa al personaggio del Radioman, che assomiglia molto – sebbene sia più incisivo – al fotografo di Apocalypse now; è uno speaker radiofonico, ex-giornalista, che attraverso altoparlanti e ripetitori costruiti artigianalmente continua ad aizzare i soldati contro i protagonisti. Nelle fasi finali, si scoprirà che il Radioman è l’ultima autorità rimasta a Dubai, un elemento significativo se lo si rapporta all’importanza dei media nella nostra società.
Peraltro è chiaro che gli sviluppatori del gioco hanno voluto insistere nel richiamo al romanzo, e non solo al film, mediante vari particolari come il già ricordato nome del colonnello, il discorso che quest’ultimo fa ai suoi soldati ( “there is darkness to come, but you take heart”), le effigi di Konrad che i rifugiati adorano.
Il collegamento con le altre opere, comunque, va ad un livello molto più profondo. Il tema principale del gioco, infatti, oltre appunto alla guerra, è la conoscenza dell’animo umano e la follia che può eventualmente scaturirne. Come accade già in Cuore di tenebra e Apocalypse Now, il personaggio da raggiungere sta andando incontro alla follia, o forse è già pazzo. Il discorso è lievemente più rilevante nel film, nel quale anche il protagonista, man mano che avanza nella foresta e nella violenza, scende anch’egli, pian piano, nel turbine della pazzia – elemento che è assente nel romanzo, invece, in cui si assiste senz’altro a un turbamento del narratore Marlowe.
Successivamente troviamo altri indizi, sempre più chiari, della pazzia di Walker: un combattimento uno contro uno contro un soldato americano, in una stanza dove la luce va e viene a intermittenza e in cui alcuni manichini appaiono e ricompaiono a scatti; una visione, nel momento in cui l’elicottero si schianta, nella quale Walker cammina in un’allucinante distesa di sabbia e fiamme, dominata da una torre oscura che ricorda tanto quella di Mordor; un altro combattimento in cui nell’avversario rivede il commilitone Lugo, morto poco prima, che lo maledice accusandolo della propria morte.
Ciò assume un significativo ancora più determinante se si considera il ruolo di Konrad nella prima parte del gioco. Se, inizialmente, Walker crede di doverlo raggiungere per una commistione di senso del dovere e di affettività (Konrad gli aveva precedentemente salvato la vita a Kabul), peraltro con un’insistenza che ha già in sé l’ossessione, proseguendo nello svolgimento Walker carica Konrad di tutta la crudeltà e la violenza di cui è circondato e che lui stesso – dice – è costretto a commettere. Inizialmente Konrad è insomma il fine, un oggetto positivo da raggiungere (in un certo senso anche una garanzia di approvazione e riconoscimento, se vogliamo vestire Konrad di caratteri paternali), mentre successivamente è oggetto negativo che è causa di ogni male. Per Walker non esiste scelta che non sia quella di Konrad, poiché tutto quello che il capitano stesso ha commesso – in primis la famosa strage col fosforo – è stato necessario, perché dopotutto lui e i suoi commilitoni sono principalmente soldati. Il confronto finale con Konrad è una presa di coscienza del concetto stesso di scelta, e delle mostruosità che si possono celare in essa. Alla fine, Walker (e con lui il giocatore) è costretto a scegliere: asseconderà la propria pulsione autodistruttiva, sparando alla propria immagine, o distruggerà il “comodo” Konrad?
La scelta influenza ovviamente il finale: Walker può uccidere sé stesso, riconoscendosi colpevole di tutto quello che è accaduto e meritevole di condanna; oppure, può distruggere Konrad, ammettendo sì una propria responsabilità – se il colonnello smette di esistere, chi altri può aver causato gli eventi disastrosi che ha vissuto? – ma non per questo necessariamente giudicandosi.
Si può anche ipotizzare che l’esecuzione di Konrad sia “morale”, una punizione in differita che Walker si sente in dovere di eseguire nei confronti di quello che, ancora, considera l’artefice della strage di Dubai. Ma quest’ultima interpretazione mi sembra un po’ forzata.
Fatto sta che, nel momento in cui resterà solo, Walker diventerà il nuovo dittatore di Dubai, così come Willard in Apocalypse Now, sacrificando Kurtz, era diventato il nuovo re.
Quando lo ritroveremo, poco dopo, Walker vestirà significativamente la giacca di Konrad: segno che il passaggio di consegne tra i due, comunque lo si voglia vedere, è effettivamente avvenuto. Successivamente il giocatore potrà scegliere se il capitano si arrenderà ai soccorsi, o se eliminerà la prima pattuglia venuta a cercarlo dentro Dubai: questa seconda scelta darà l’ennesima connotazione negativa al personaggio, divenuto ormai talmente assuefatto agli orrori della città da non desiderarne più la fine.
Qualcosa che è possibile anche grazie ai temi trattati: la guerra, la follia, e il concetto di scelta che – proprio come accade a Walker – operiamo ogni giorno, ogni istante, sempre più senza vederla.
Il punto più importante, per estendere il discorso oltre il singolo videogioco arriando al medium per intero, sta proprio nella mancata scelta data al giocatore nel caso del fosforo bianco.
Lo specifico del medium videoludico è, infatti, l’interattività. Su questo non si sfugge. E non è un problema da poco, anche se penso siano pochi gli accademici che se ne occupano. Un medium che cede parte del suo costruire senso a una parte terza, quale quello del giocatore, è ancora artistico e autoriale? Con quali paletti e quale conseguenze? Ma divago. Gli sviluppatori del gioco hanno deciso di levare questa possibilità al giocatore: o prosegui, o fai alt+f4 e concludi qui l’esperienza. Avrebbero potuto comportarsi diversamente: dare una o più opzioni, magari più difficili, con cui andare oltre questa scelta. Ma a fare così, si sarebbe persa l’occasione, non da poco, di gettare letteralmente in faccia le conseguenze delle proprie azioni al giocatore: la scena della madre che abbassa la mano carbonizzata sugli occhi della figlia (o del figlio, mo’ non ricordo). Andando su un piano più teorico, la sfida è quella che dicevo prima, cioè fra i diritti del giocatore di interagire con il gioco e quelle dell’autore di imporre una narrativa. Non è un problema da poco. Non è neanche proprio specifico dei videogiochi: anche l’arte d’avanguardia, correggetemi se sbaglio, sta provando da tempo a inserire il fruitore. Butto due esempi: il lettore di Petrolio, o delle poesie di Balestrini, che ha di fronte frammenti di brani o di versi da ricostruire (con diverse percentuali di autorialità, più marcate in Pasolini, molto meno in Balestrini), oppure quella versione dell’Orlando Furioso di Ronconi con i vari palchi (e quindi episodi) assemblati dagli spettatori. Ma questa problematica lì è, come dire, più laterale: il rapporto autore-fruitore è egemonico, perché il fruitore può modificare l’opera, sostanzialmente, solo nella sua mente e nella sua personale esperienza. L’opera in sé non cambia. Con i videogiochi, l’interazione rende, come dicevo, centrale questo problema: se il giocatore di uno Spec Ops che non c’è ammazza tutti i cecchini ed evita di far del male ai civili. Il gioco è pensabile come un numero di giochi possibili che cambiano attraverso l’interazione, con una flessibilità – ma qui forse sbaglio, maggiore rispetto a un libro o un teatro.
Ed ecco che partono altre riflessioni… quanto è ampia questa flessibilità? Quanto dovrebbe? Una flessibilità minima, come quella di Spec Ops, ci impone una narrativa, ma ci insegna anche una lezione. Una flessibilità totale come quella di una sandbox, come Minecraft, non ci impone nulla, ma non ci insegna nulla. Come dovremmo dosare questo “valore”? Quanto dare al fruitore e quanto all’autore? E, soprattutto, vale anche per i libri, i film, i medium più tradizionali in generale?
Per concludere, lo specifico dell’interazione apre molte strade al medium videoludico e, a livello di critica, di teoria, anche ai medium precedenti. E sarebbe dannatamente l’ora che se ne parli, senza relegarli a un livello di semplice intrattenimento.
Ah: è l’1 di notte e non ho la forza di rileggere il post. Vi chiedo anticipatamente scusa se è poco “fluente”, ho seguito un pensiero senza fermarmi a riflettere sulla forma. Ve ne chiedo scusa.
E, approposito di forma: Spec Ops ha anche una caratteristica formale forse non analizzata dall’articolo: è un tps classicissimo, al punto da essere banale. Ciò, a detta degli sviluppatori, è voluto: bisognava fare un gioco classicissimo per decostruire il genere dei tpsfps di guerra. Ciò, però, è stato giustamente visto come un difetto, che ha reso difficile la fruizione a giocatori che vorrebbero, oltre alla sostanza della decostruzione, anche un po’ di intrattenimento, e ha aperto il fianco a critiche di pretenziosità (“Sissì, non è che hai fatto un gioco di merda, hai fatto satira. Quello eh.”). Anche qua parte un’interessante riflessione: quanto bisogna dosare la forma in un’opera artistica, quanto bisogna “svendere” alla pura, banale estetica, per far arrivare il messaggio? Io sono per l'”Interessante per mezzo” di Manzoni, però c’è da discutere.